Design for cultural diversity

Quando abbiamo iniziato a pensare al design di Imminent la prima cosa che ci è venuta in mente è stata : facciamo delle mappe di tutti i paesi con le lingue parlate. Bene. Il nostro team ha raccolto dati, sulle lingue, sui territori, sulle popolazioni, i nostri designer hanno iniziato a cercare uno stile per farle, hanno deciso dei colori.

Il team era composto da due designer italiane, una cinese, un americano nato in Messico, oltre a me: italiana per nascita e formazione, internazionale per professione da sempre. E abbiamo stabilito tutti insieme i colori e lo stile, partendo dalla nostra esperienza, dal nostro gusto. Abbiamo disegnato centinaia di mappe con migliaia di lingue. Divise per continenti e poi paesi.
Un lavoro certosino e bellissimo.

Ma ad un certo punto abbiamo iniziato a farci delle domande: ma i continenti sono 5 o 6? 5 dicevamo noi europei, a scuola abbiamo imparato questo. 6 diceva il nostro collega americano, 6 la designer cinese. Ok, ma se le Americhe sono due allora il Centro America dove sta?Puoi dire a un messicano che lo consideriamo un Sudamericano? O un Nordamericano? Aspetta, ma in America non vogliono far un muro con il Messico? E poi l’ Azerbaijan sta in Asia o Europa? E La Russia? Non sta metà in Asia? E se le Americhe sono due, dobbiamo differenziare i colori? Ma il colore che abbiamo scelto per l’Asia può causare dei problemi culturali? Il verde non era proibito in Indonesia? Il giallo non è il colore della pornografia in Cina?

Insomma dopo aver già completato la maggior parte del nostro lavoro, ci siamo trovati nel caos più totale.
E abbiamo iniziato a cercare feedback nella nostra rete di linguisti. Ora il processo iniziava ad avere più senso, ma invece di semplificarci la vita ce la siamo complicata ancora di più.

Perché oltre alla sensibilità culturale ci siamo trovati di fronte a nuove sensibilità, identitarie, politiche, di gender, dove un colore, una mappa, un’icona possono significare qualcosa o il suo contrario, offendere, avere significati diversi o anche nessuno.

Se una volta i messaggi visivi erano relegati nelle città e nei luoghi in cui nascevano, nella società contemporanea si fondono uno con l’altro; da una parte questo aiuta le persone a connettersi e comprendersi, dall’altra quello che va bene per una cultura, quello che fa ridere, altrove può offendere o generare conflitti. Anche devastanti.

Lavorare in Europa e tenere solo a mente la nostra cultura comporta bias nel modo in cui comunichiamo e produciamo creatività. Ora ci troviamo in un momento, anche per l’attenzione alle sensibilità etniche, di genere, delle pari opportunità, in cui comunicare visivamente è molto complicato, dove certe volte diventa quasi impossibile farlo. Ma noi designer per vocazione siamo chiamati a fare sintesi.

Per affrontare questa complessità abbiamo bisogno di un metodo. Ci serve un modo per confrontare i punti di vista, che sia al contempo operazionale e culturalmente sensibile.

Ed è urgente perché se guardiamo alla dirompente capacità della rete di unire metà della popolazione mondiale in una conversazione globale nei suoi primi trent’anni che cosa succederà nei prossimi, quando le migrazioni che il pianeta inospitale causerà e i nuovi metamondi, genereranno nuovi linguaggi, nuove rivoluzioni e nuova tecnologia?

Il metodo da creare e instillare nella pratica del lavoro di design visuale deve necessariamente prevedere un confronto con rappresentanti delle diverse culture coinvolte e costituire un nuovo percorso per la qualità multiculturale del design visuale. A Imminent abbiamo la fortuna di poter contare su centinaia di operatori culturali multilingue che passano la giornata a trasportare significati da una cultura all’altra. Su questo possiamo costruire. Per poter affrontare domande decisive.

Iniziamo da quelle che avremmo dovuto farci all’inizio del nostro lavoro.

Come è messo il mondo?

Nel senso proprio di come possiamo raccontarlo nello spazio senza bias e come la situazione politica ne cambia i confini.

 In The Politics of Design – A (Not So) Global Manual for Visual Communication – Ruben Pater esplora il contesto politico e culturale della tipografia, dei colori, della fotografia, dei simboli e di tutta l’infografica che usiamo oggi.
E lo fa affermando che la consapevolezza politica e culturale del nostro lavoro non limita la creatività, ma al contrario apre nuove strade all’esplorazione creativa. E racconta (ritornando alle nostre mappe) che nel Novembre del 2014 l’invasione russa della Crimea, portò il campo di battaglia su Google Maps.

Inizialmente Google disegnò la Crimea come area controversa, disegnandola con un confine tratteggiato. Su pressione del governo russo, Google dovette rappresentarla come territorio russo.
Fuori dalla Russia ha ancora il confine tratteggiato.

La nozione che le mappe siano la visualizzazione oggettiva e scientifica del mondo è mito comune.
Nel 1931, a New Orleans il matematico Alfred Korzybski presentò un paper sulla semantica matematica in cui rese popolare l’idea che la mappa non è il territorio.


Qui le sue parole:

A.) A map may have a structure similar or dissimilar to the structure of the territory.

B.) Two similar structures have similar ‘logical’ characteristics. Thus, if in a correct map, Dresden is given as between Paris and Warsaw, a similar relation is found in the actual territory.

C.) A map is not the actual territory.

D.) An ideal map would contain the map of the map, the map of the map of the map, etc., endlessly…We may call this characteristic self-reflexiveness.

Anche le mappe migliori hanno dei limiti e Korzybski ne sottolinea alcuni

(A.) The map could be incorrect without us realizing it;
(B.) The map is, by necessity, a reduction of the actual thing, a process in which you lose certain important information;
(C.) A map needs interpretation, a process that can cause major errors.


https://fs.blog/map-and-territory/

I dettagli di una mappa sono fondamentali , come il colore, mettere od omettere i nomi delle città può significare che quell’area è di interesse oppure no.

The Dymaxion Map

La moderna cartografia ha origine nell’Europa colonialista. E infatti una mappa che mostra il nord è già frutto di bias culturali. Una mappa non dovrebbe avere un centro geografico. Ecco perché nel 1943 il designer Buckminster Fuller disegnò una mappa del mondo senza nord, sud, destra o sinistra: The Dymaxion Map. Dividendo la mappa in  20 triangoli, può essere ripiegata in un icosaedro quasi sferico.
Accettare che le mappe che disegniamo siano il panorama che si vede dalla nostra finestra di casa (in questo caso l’Europa) o che rappresentino i mercati target del business o che siano la rappresentazione oggettiva di un paese in cui nascono e vivono le lingue, fa parte di quelle decisioni che vanno prese e dichiarate tali sin dall’inizio del processo.

La percezione dei colori è un’esperienza umana universale?

Come scrive sapiens.org i Candoshi , una tribù che vive nel cuore del Perù, non hanno una parola per il concetto di colore, ma hanno termini per il nero  (kantsirpi), il bianco (borshi), il rosso (chobiapi), e il giallo – arancio (ptsiyaro). Le cose si fanno più difficili alla fine dello spettro, verso il blu: la parola kavabana viene utilizzata dal verde al viola, ma  kamachpa descrive il verde scuro.

“Of course some societies don’t have a word for color,” Kay adds. “There are tons of languages that have words for big and small, or hot and cold, without a word for size or temperature. Most unwritten languages don’t have words for abstractions. You don’t need ’em.”

https://www.sapiens.org/language/color-perception/

La linguista Anna Wierzbicka della Australian National University di Canberra dice:“Color is not a universal concern,” Wierzbicka says. “All people use verbal resources to describe what they see,” she adds. We categorize and compare but in different ways. One might group things by shininess, texture, or size; by something we have never thought of; or by all of these at once. Color is most important, she notes, in a manufacturing society, where two objects might be identical except for color (a red shirt and a blue shirt). That just doesn’t happen in the natural world.

Possiamo quindi dire che le diverse culture percepiscono i colori con delle differenze ma quello che cambia è il modo in cui ne parlano. Possiamo dire che è il linguaggio a creare le sfumature che vediamo?

Nel suo libro “ Atlante sentimentale dei colori, (Utet, 2019) Kassia Saint Clair analizza come le lingue siano evolute in modo diverso sulla categorizzazione dei colori: per alcune prima venivano i colori per definire il buio e la luce, poi il rosso, il giallo, il verde e infine il blu. Per altre non è stato così. I coreani hanno una parola che distingue  il giallo-verde dal verde “normale”; i russi e gli italiani usano parole diverse per definire il blu e l’azzurro, che per altre lingue è solo un blu chiaro.

L’Himba , una lingua parlata da una tribù dell’Africa sudoccidentale suddivide lo spettro in 5 segmenti, mentre la Rennel-Bellona – una lingua delle isole Salomone – divide lo spettro tra bianco, scuro e rosso, dove lo scuro comprende il blu e il verde mentre il rosso il giallo e l’arancione.

Alla percezione dei colori nelle diverse culture si lega anche il tema del significato che questi hanno.
E questo è particolarmente importante per noi creativi in un’ottica di localizzazione del nostro lavoro visuale.
Spesso siamo tentati di non rischiare nulla e quindi di rappresentare il meno possibile, ma lavorare per comunicare alle diverse culture è bellissimo e stimolante. E d’altronde il nostro lavoro diventa più potente e significativo quando riesce a parlare con il linguaggio visivo giusto.

I colori hanno significati diversi per le diverse culture?

Ogni giorno la nostra mente reagisce ai colori, anche quando non ci facciamo veramente caso. Quando i nostri occhi percepiscono un colore il cervello manda un segnale al sistema endocrino che rilascia ormoni che influiscono sul nostro umore. Il successo di un prodotto dipende molto dai colori che il suo packaging utilizza.

Ma quando il significato è diverso da cultura a cultura?

Circa 98 lingue nel mondo hanno parole per gli stessi undici colori, tuttavia il loro significato cambia secondo la cultura , il contesto e anche col tempo. Se il rosso era il colore delle spose in Cina, adesso non è raro vedere una sposa cinese in bianco. Ho lavorato tanti anni per il mercato cinese, e alla fine facevamo sempre tutto rosso. é il colore della fortuna e della felicità. E quindi il vino deve essere sempre rosso, così come la creatività per il Capodanno cinese e tutte le celebrazioni importanti. Da noi il rosso è il colore dell’allarme, addirittura non si può fare un’affissione rossa per strada perché si rischia di causare un incidente. Nel sud dell’India è il colore della violenza e della distruzione.

E se il nero è il colore del lutto, oggi l’industria del food o del beauty utilizza il nero per il packaging di lusso. In Medio Oriente è il colore della rinascita, del mistero, del male. Per gli aborigeni il colore delle cerimonie.
E se il blu per noi occidentali è il colore maschile per eccellenza, in Cina al contrario è il colore femminile. In Thailandia il rosa è il colore del martedì. Quindi se faccio comunicazione in quel paese devo saperlo, usare il rosa potrebbe essere la chiave dello storytelling. Che perderebbe completamente senso nel momento in cui parlo ad altre culture.

In Indonesia vestirsi verde è proibito? Si, ma non dappertutto, solo nella parte sud dell’isola di Java, a Parangtritis beach e Pelabuhan Ratu beach dove le popolazioni locali credono che Nyi Roro Kidul, the Queen of Southern Sea, ritratta sempre vestita di verde, ti possa trascinare in mare ed uccidere se porti qualcosa di verde.
Ma lo stesso verde è il colore sacro dell’Islam. E quindi un colore prezioso. Se sono un brand di moda e voglio esportare in Indonesia, produrrò camicie verdi o eviterò di farlo?
Se so che è un colore sacro e comunico in un paese islamico ci sono dei prodotti per i quali sarebbe meglio non usarlo?

E ora veniamo alle domande che dobbiamo porci per arrivare a definire un metodo per un visual design che affondi le sue radici dell’intelligenza culturale (nota per traduzione DESIGN ROOTED IN CULTURAL INTELLIGENCE).

I trend sociali possono influire sulla comprensione culturale?

Il mondo sempre più connesso integra le proprie differenze e genera nuovi linguaggi.  E se i trend globali influiscono sulle nuove generazioni sempre connesse, il modo con cui le diverse culture li fanno propri cambia. Prendiamo ad esempio i giovani cinesi che fino a ieri erano avidi di brand del lusso e di prodotti icona e che invece adesso, disincantati dal capitalismo, ritornano alla tradizione cinese, comprando i prodotti locali per restituire nuovo valore al “Made in China”. I brand che vogliono entrare in Cina devono fare delle partnership con i brand cinesi, per avere successo con le generazioni dei più giovani, che abbracciano i riti antichi della loro cultura nell’intrattenimento, nell’arte e nella musica.

Se da sempre in Arabia Saudita le donne provano disagio a mangiare fuori, oggi è proprio dalle tavole che parte una nuova rivoluzione culturale.* Non solo le donne possono mangiare al ristorante ma anche lavorare come cameriere, bartender o hostess. I trend sociali, diventano un tassello fondamentale della localizzazione visuale di un brand. *(https://www.bloomberg.com/news/features/2021-08-11/a-new-saudi-food-scene-where-women-are-allowed)

E allora se il mondo cambia, cambia in modo diverso da cultura a cultura.

È possibile disegnare un metodo che faccia sintesi di questa complessità? Come dicevamo prima anche in questo caso l’intelligenza collaborativa è la strada migliore per validare il nostro lavoro. Ci capita sempre più spesso di testare la comunicazione di brand che vogliono aprirsi a nuove lingue e dunque a nuove culture. La vastissima rete di linguisti che collaborano con noi, diventa una risorsa inestimabile nel nostro lavoro. Un osservatorio contemporaneo che affonda le radici nelle tradizioni locali e guarda al nuovo terreno comune che tecnologia e migrazioni stanno costruendo.               
Per i brand che sono interessati alla brand localization costruiamo team di copywriter e language lead per ogni paese, e poi qui ad Imminent scriviamo le domande giuste. La domanda giusta è sempre quella che porta in sé la migliore risposta possibile.

Abbiamo organizzato il processo in sei step :

Una volta che i linguisti rispondono alle domande mandiamo il report a un panel nutrito di traduttori nei diversi paesi, affinché valutino il risultato. Questa fase è fondamentale per ridurre il rischio di risposte troppo personali basate sull’esperienza del singolo e per avere un confronto costruttivo su prospettive diverse. I traduttori che per vocazione sono specializzati su temi verticali, economia, medicina, moda, turismo e possono integrare i risultati con il loro prezioso  punto di vista. Abbiamo utilizzato questo metodo per la prima volta quest’anno con risultati molto interessanti per creare brand localization guidelines per i nostri clienti, che in questo modo coinvolgono il marketing nel processo di traduzione e amplificano il potenziale di comprensione del loro messaggio nelle diverse culture.

Sicuramente è il punto di partenza anche creativo per creare nuovo valore dalla diversità e per esplorare un nuovo territorio comune fra le diverse culture.
Se veramente non siamo Personas ma persone, non siamo cioè stereotipi dei consumatori per il marketing, ma persone che hanno nella molteplicità del loro essere la loro ricchezza, forse nel 21° secolo, il tempo dei nuovi mondi, delle nuove tecnologie e nuove migrazioni, riusciremo attraverso l’intelligenza creativa collaborativa a trovare nuovi linguaggi comuni che consentano a tutte le culture di comprendersi profondamente in modo nuovo.